Dimmi che crimine guardi e ti dirò chi sei

Data: 22-04-2011

– di Silvia Salese 2011

Dall’Università del Nebraska è appena stata pubblicata una ricerca [1] che, a ben vedere, non ha nulla di insolito, ma che tuttavia può ancora una volta far riflettere sui sorprendenti poteri della nostra mente. Niente paura, lasceremo ad una ben più corposa letteratura il piacere di svelare le chiavi del successo e della felicità (…), noi preferiremo qui dedicarci alle capacità straordinarie che possiede la nostra mente per rendere la nosta vita un coacervo di paura e tristezza.

In breve sono state intervistate centinaia di persone adulte che avevano l’abitudine di guardare in tv programmi sulla criminalità: telefilm che narrano di storie tragiche ma inventate, trasmissioni basate su avvenimenti reali (di gran voga specie ultimamente) o telegiornali locali e nazionali. In base alla tipologia preferita, gli intervistati mostrarono opinioni e timori riguardo al crimine differenti tra loro – pensieri ovviamenti con cui dovevano avere a che fare nella vita di tutti i giorni.

In particolare, lo studio ha sottolineato che le persone che guardano reportage di fatti avvenuti realmente hanno un maggior timore delle altre di diventare a loro volta vittime del crimine oltre, come logico, a confidare molto poco nella giustizia. Gli spettatori di fiction invece non hanno paura di trovarsi nei guai, ma sono più propensi ad appoggiare condotte molto punitive nei confronti dei criminali, inclusa la pena da morte. Chi invece si sollazza con i notiziari è convinto che il tasso dicriminalità locale sia in crescita, quando invece ignoriamo, di fatto, che cosa nel complesso succede e non succede nel mondo.

Gli studiosi concordano sul fatto che i programmi basati su storie reali abbiano un maggiore impatto psicologico delle fiction. Si pensi ai particolari su cui si concentrano: le interviste alle vittime, ai suoi familiari e amici, le concause dei delitti, la psicologia da quattro soldi sulla mentalità del criminale e sui suoi possibili problemi… certo, tutto fa pensare che il dramma sia dietro l’angolo, che possa accadere a chiunque o – peggio ancora – ai propri cari, e che quindi sia logico guardarsi con timore alle spalle.

Inoltre, come lo studio suggerisce, sembra che i reportage dipingano storie prevalentemente avvenute in periferia, dando allo spettatore l’idea di una maggiore prossimità “spaziale” al dramma, mentre le fiction si concentrano maggiormente sulle grandi città, alimentando l’idea opposta che la città sia sinonimo di violenza e quant’altro.

Ancora una volta, dicevamo, possiamo soffermarci a riflettere sul fatto che ciò di cui ci alimentiamo – in questo caso psichicamente – diventa a ben vedere parte integrante della nostra realtà: chiunque di noi sa quanto una paura possa riempire la propria esistenza, e in che modo ci faccia comportare di conseguenza.

Il problema, a mio avviso, è proprio questo. Non posso pensare che, infarcendomi di scene raccapriccianti, magistralmente accompagnate da musiche inquietanti, io ne possa uscire indenne. La nostra mente, al di là di ciò che emerge consapevolmente, immagazzina i dati e incapsula i suoi simboli. Morale della favola: continuiamo a portarceli dietro.

Che dire poi di quel simpaticissimo fenomeno della profezia che si autoadempie? Come brillantemente riporta Paul Watzlawick, uno dei padri fondatori del costruttivismo, “la profezia dell’evento porta all’avverarsi della profezia. La sola condizione è che ci si profetizzi o ci si faccia profetizzare qualcosa, e che la si ritenga un fatto imminente e di forza maggiore. In questo modo si arriva proprio là dove non si voleva arrivare” [2].

Illuminante, non trovate? ritorneremo presto sull’argomento. Nel frattempo proporrei una sana disintossicazione dalle notizie raccapriccianti del nostro tempo. Non si sa mai…

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[1] Lisa A. Kort-Butler, Kelley J. Sittner Hartshorn. Watching the Detectives: Crime Programming, Fear of Crime, and Attitudes About the Criminal Justice System. Sociological Quarterly, 2011; 52 (1): 36 DOI: 10.1111/j.1533-8525.2010.01191.x.

[2] Paul Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici, Feltrinelli, Milano, 1984.

 

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